La compagnia “Teatro Segreto” ha presentato a Catania "Dio non parla svedese"

 


Sabato 20 e domenica 21 gennaio, al Centro Zo Culture Contemporanee, fucina culturale e artistica attiva da anni nel territorio catanese, è andato in scena Dio non parla Svedese, spettacolo prodotto da Teatro Segreto, scritto e interpretato da Diego Frisina, per la regia di Ludovico Buldini, che ha curato anche il disegno di luci. La pièce ha la struttura narrativa di un monologo, è stata selezionata al Palco Off Milano Off Fringe Festival 2022 e apre la stagione della rassegna teatrale Palco Off del 2024.

Reale protagonista di questa storia è la Corea di Huntington, che ha segnato l'adolescenza del personaggio che però non è il vero centro del racconto, ma un portavoce della malattia. Si tratta di una patologia ereditaria neurovegetativa che implica la degenerazione delle parti dell'encefalo responsabili del coordinamento dei movimenti del corpo umano e della loro fluidità. Esordisce con degli spasmi o scatti occasionali involontari, ma col passare del tempo si assiste a movimenti involontari più pronunciati, convulsi e scoordinati. E al progressivo deterioramento delle funzioni cognitive, in specie quelle che sovrintendono all'autocontrollo e la memoria, che conduce spesso, alla demenza grave, alla perdita della deambulazione e in fine, dopo circa 10 o 15 anni dallo sviluppo della malattia, alla morte della persona che ne è affetta.

La scena iniziale vede il ragazzo in piedi nella camera dei genitori. È spaesato, attonito. C'è una sedia, un coltello per terra, e il carillon in cui sua madre conserva i gioielli. Ci sono suo padre che punta contro di lui una pistola, e sua madre priva di sensi, distesa sul pavimento. Lui non riesce a ricordare quanto è accaduto, e nonostante lo scenario suggerisca che il luogo fisico è la camera da letto dei suoi, l'atmosfera è surreale. Quello in cui si trova catapultato sembra più un luogo-non luogo, privo di spazio e tempo, in cui rimbombano solo le sue domande e le sue paure. Un luogo che potrebbe benissimo esistere solo nella sua mente. O forse no. Il ragazzo si domanda ad alta voce se ciò che vede non sia altro che il frutto di un delirio dispercettivo, principale sintomo della sua malattia e, consapevole se non altro dell' impossibilità di poter dominare questa sua condizione, decide di assecondarla. Inizia così a raccontarsi al pubblico in un flusso di coscienza che ripercorre la sua adolescenza tormentata dalla Corea di Huntington, scoperta a soli 14 anni. Rivive le sue sedute di psicoterapia, i suoi amori, le sue disavventure legali, consequenziali alla sua progressiva perdita del controllo delle facoltà mentali, i suoi litigi con il padre, che arriva a cacciarlo di casa, il suo rapporto con le droghe. Mette in discussione tutti consigli che gli vengono dati, ogni “perla di saggezza” che secondo gli adulti dovrebbe aiutarlo a vivere meglio, ogni dogma. E nel farlo parla del suo concetto di amore, del suo modo di intendere la vita, la quale è secondo lui come un mobile di marca Ikea con le istruzioni in lingua svedese. Una lingua che non conosce nemmeno quel Dio a cui il ragazzo non crede, e che quindi non può aiutarlo a vivere.

Il monologo diventa presto un dialogo con il pubblico, che Diego Frisina riesce a coinvolgere magistralmente per tutta la durata dello spettacolo, ed è inoltre intervallato da varie canzoni rock, durante le quali il protagonista balla in modo volutamente poco coordinato. Ma è una danza disperata eseguita per scacciare i propri demoni, che continuano inesorabili a tormentarlo. Le partiture e i movimenti non sono mai lasciati al caso, ma guidati dalla sapiente regia di Ludovico Buldini. Questi accorgimenti, contribuiscono a descrivere meglio la Corea di Huntington e a renderla protagonista del racconto. Ma questo fine viene raggiunto anche grazie al nichilismo con cui il ragazzo abbatte ogni diktat sociale, pur sapendo che lasciarsi andare agli istinti del momento, illudendosi di vivere la sua malattia semplicemente come una diversità, e rifiutando di guarire almeno dal punto di vista psicologico, lo conduce in realtà alla più totale disperazione. A ricordarglielo è una voce fuori campo:

«É piú importante essere speciali piuttosto che essere felici?»

Una voce che lo rimbecca più volte durante la rappresentazione, e alla quale lui si ribella.



Diego Frisina è riuscito ad allacciare il pubblico alla storia e mantenere viva la sua attenzione fino allo struggente epilogo, grazie alla sua grande sensibilità e alla forza scenica di un uragano. Ha anche regalato momenti esilaranti e freddure sottili e sarcastiche, mischiando bene il colore drammatico e quello brillante del suo testo. Ma sopra ogni cosa, sia lui che il regista, hanno avuto il coraggio di osare, parlando di una malattia neurovegetativa così invalidante.

Dopo lo spettacolo si è assistito a un dibattito col pubblico nella stessa sala in cui è andato in scena, guidato da Francesca Vitale e Renato Lombardo, gli organizzatori di entrambe le edizioni del Catania Fringe Festival. Durante questo momento di incontro, Buldini e Frisina hanno dichiarato quanto per loro sia fondamentale parlare di argomenti scomodi come la malattia, e proporre un teatro diverso, sempre nuovo, volto alla sensibilizzazione delle coscienze.



La malattia è ancora un tabù nella nostra società, è come la polvere che vogliamo nascondere sotto il tappeto. Ed è per questo che abbiamo bisogno di artisti che osano. Ci auguriamo possa crescere sempre di più, questo modo di fare teatro. Abbiamo bisogno di un teatro ambizioso. L'ambizione non ha sempre a che vedere con la smania di salire in cima. Spesso, la parola "ambizione" è sinonimo di coraggio.

 

Francesca Sanfilippo


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