Ha riscosso molto successo al “Catania Off Fringe Festival” la pièce "Radici"

 


Fra gli spettacoli ospitati dal mercato metropolitano Piazza Scammacca, in occasione del Catania Off Fringe Festival, uno dei più potenti, sia dal punto di vista performativo che dal punto di vista del contenuto, è stato Radici, di e con Antonio Anzilotti De Nitto. La pièce è andata in scena dal 17 al 20 ottobre e dal 24 al 27 ottobre.

Sullo sfondo storico-geografico della Germania ai tempi della Shoah, l'autore ha ritratto con la sua penna quattro personaggi, che raccontano le loro vicende personali inevitabilmente intrecciate a quelle storico-sociali della Germania nazista, e li ha interpretati utilizzando la struttura del monologo.

Il primo personaggio è un giovane omosessuale che convive con la paura di vivere ed esprimere apertamente il suo orientamento sessuale in un mondo che non è ancora pronto ad accogliere questa condizione. In una Germania governata dal partito di Hitler, pronto a sterminare qualunque individuo ritenuto inutile o addirittura dannoso per il dominio della razza ariana. Inadatto a riprodursi, favorendo così l'espansione e la crescita della razza ariana, il popolo che secondo Hitler avrebbe dovuto dominare il mondo. Ma la persone a cui più di tutti il ragazzo vuole rivelarsi, tremando di paura all'idea di farlo, sono i suoi genitori, in particolare il padre, con cui ha un rapporto conflittuale.

Il ragazzo soffre la stessa solitudine di tutti i diversi. E il fil rouge di questi monologhi è proprio il tema della diversità, molto caro all'autore, come da lui stesso dichiarato. I "diversi", che durante quella pagina vergognosa della nostra Storia furono oggetto di ghettizzazione, persecuzione, e sterminio.



Essendo Anzilotti uno psicologo clinico abilitato, che sta per concludere i suoi studi alla scuola di psicoterapia, tiene particolarmente al tema della disabilità psichica, che in quest'opera è stata trattata non soltanto con estrema sensibilità, ma anche con approfondimento, in una scrittura efficace, umana, e rivelatrice di fatti ai più sconosciuti.

Ma il testo inizia con una delle pagine più dimenticate relative all'Olocausto, ovvero lo sterminio di ebrei, gitani, testimoni di Geova, oppositori politici, come anche degli omosessuali, i quali una volta arrivati nei campi di concentramento dovevano indossare un triangolo rosa sulle divise del campo, aderendo così al sistema di classificazione dei prigionieri.

Già a partire dal 1933 molte comunità gay in Germania vennero smantellate dal regime nazista, furono arrestati molti uomini gay, definiti criminali omosessuali dallo stesso codice penale tedesco, che vietava le relazioni sessuali fra uomini. La persecuzione e lo sterminio degli omosessuali fu definita “omocausto”, anche se soltanto negli anni ottanta e novanta del ventesimo secolo si cominciò ad attribuire questo episodio storico alla realtà della persecuzione nazista.



Nel primo monologo a parlare è un ragazzo omosessuale. Lo spettatore assiste a un' interessante evoluzione dello stesso: all'inizio il ragazzo è spaventato dal mondo, dalla sua stessa diversità che, come lui teme, potrebbe privarlo dell'amore delle persone più care. È chiuso nel cerchio delle sue paure e della sua solitudine. I suoi genitori sanno che i soldati di Hitler sono pronti a catturare tutti gli omosessuali che riescono a scovare, e anche per questo, non prendono bene la notizia del suo orientamento sessuale. Il ragazzo conosce il suo primo uomo, di cui si innamora follemente e che lui chiama "Primo": impossibile non vedere in questo nome un riferimento allo scrittore, chimico e partigiano Primo Levi.

I due si frequentano.

Ma un giorno Primo viene deportato in un lager insieme alla sua famiglia, a causa della loro origine ebrea. Il protagonista è disperato, ma riesce a trovare uno stratagemma per intrufolarsi nel campo di sterminio indossando una divisa da soldato del Reich. Tenta di tirare fuori dal lager Primo, che però non può pensare di lasciare da sola la sua famiglia, e così farà capire al ragazzo il fine più elevato dell'amore: l'altruismo. Lo stesso altruismo con cui il protagonista dovrà lasciarlo andare, mostrando una forza interiore che, Primo lo sa, a questo punto della loro storia possiede.

Quasi senza che il pubblico se ne renda conto, l'attore, mentre termina di vestire i panni del ragazzo, comincia a far parlare un altro personaggio, l'unico fra i quattro protagonisti che sia realmente esistito: il pugile Johann Wilhelm Trollmann, nato nel 1907 a Wilsche, nella Bassa Sassonia, da genitori sinti, e cresciuto a Hannover, nella Germania centro-settentrionale.



Dopo aver vinto il campionato della Germania del sud ed essere diventato membro della BC Heroes di Hannover, boxe club fondato nel 1922, Johann, soprannominato Rukeli (albero in lingua sinti) per via dei ricci scuri e del fisico prestante, vinse molti altri campionati regionali, soprattutto durante il periodo dell'adolescenza.

Successivamente ottenne il titolo di campione della Germania del nord. Nel 1928 partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Amsterdam, da cui venne poi scartato perché, a causa delle sue origini etniche, non poteva rappresentare la Germania nei giochi olimpici. Era solo l'inizio delle vessazioni di stampo xenofobo da lui ricevute. Un altro soprannome che gli era stato affibbiato fu infatti "Gipsy", termine che significa "zingaro". Dopo questo episodio Trollmann si unì alla più nota associazione sportiva dei lavoratori di Hannover, la BC Sparta Linden. Dovremo aspettare il 1929 prima che il giovane pugile passi al professionismo, grazie al suo manager Ernst Zirzow.

Con l'ascesa del partito nazionalsocialista la boxe prese un nuovo nome, Deutscher Faustkampf, ovvero "pugilato tedesco", i boxe club in Germania furono riorganizzati e cominciò la persecuzione ed emarginazione di tutti gli atleti non ariani. Il 9 giugno del 1933 a contendersi la cintura dei mediomassimi furono Adolf Witt e Trollmann, in uno scontro tenutosi alla birreria Bock di Berlino. Nonostante Trollmann fosse in vantaggio rispetto all'avversario, i giudici di gara nazisti, il gerarca, e il presidente della federazione pugilistica, Georg Radamm, decretarono la fine dell'incontro con un "no decision". Ci fu un'insurrezione del pubblico, e furono costretti a dichiarare Trollmann vincitore, nonché campione nazionale dei pesi mediomassimi. Otto giorni dopo la federazione revocò il titolo con la motivazione di aver individuato comportamenti antisportivi da parte di Trollmann durante il combattimento.



Il 21 luglio 1933 Trollman si batté di nuovo per il titolo contro Gustav Eder, e durante l'incontro subì forti limitazioni, come il divieto di muoversi dal centro del ring e di tenere la guardia bassa, pena la revoca della licenza. Ma Johann Trollmann reagì a queste iniquità sfidando le autorità, e per estensione il nazismo. Si presentò infatti con il corpo cosparso di farina e i capelli tinti di biondo, in una caricatura dell'ariano. Mantenne la parola data perdendo al quinto round. Dopo questo episodio fu costretto a combattere clandestinamente nei luna park, dove subiva frequentemente attacchi e insurrezioni razziali. Persino il suo manager, Zirzow, fu costretto ad abbandonarlo nel 1933.

In seguito la revoca della licenza da professionista, i lavori forzati, poi la sterilizzazione, imposta a tutti gli zingari. Nell'ottobre del 1938 si costrinse a rinunciare ai due amori della sua vita: divorziò per salvare la moglie e la figlia, permettendo loro di cambiare cognome per sfuggire all'accusa di "insulto alla razza", salvando così entrambe dalla deportazione ad opera dei nazisti.

Nonostante avesse cercato di nascondersi, nel 1939, fu chiamato dalle le forze armate tedesche, per combattere sul fronte, dove fu ferito gravemente alla spalla e, una volta ripreso fu catturato dalla Gestapo e trascinato al campo di concentramento di Neuengamme. Lì venne riconosciuto da Albert Lutkemeyer, un ex arbitro di boxe delle SS, che lo costrinse a combattere tutte le sere contro gli altri soldati in cambio di grappa e un tozzo di pane. Venne trasferito al campo di lavoro di Wittenberge, dove nel 1944 venne riconosciuto da un kapò ed ex pugile dilettante, Emil Cornelius che lo costrinse a battersi contro di lui. Trollmann vinse, e Cornelius, non incassando la sconfitta, lo assassinò pochi giorni dopo, il 31 marzo del 1944.

La sua morte venne dichiarata solo con la fine della guerra, nel 1945, grazie alla dichiarazione di un testimone oculare dell'omicidio, l'ex detenuto Robert Landsberger.



La scena più intensa di questo monologo ritrae il protagonista mentre incassa i pugni da Cornelius e, allo stremo delle forze, si illude di rivedere sua moglie e sua figlia. Il suo sorriso su un volto che non è mai disposto a chinarsi alle prepotenze. Il volto di un combattente che è prima di tutto un guerriero dell'amore.

Finita quest'altra storia incredibile, Antonio Anzilotti De Nitto fa parlare altri due personaggi: un medico tedesco ingannato da Hitler, e un paziente della clinica in cui lavora il medico. È con lui che l'attore comincia il monologo. Dal conto dei colpi da assestare, mentre fa parlare il pugile, si passa al conto delle mattonelle del pavimento di un ospedale psichiatrico.

D'improvviso, il paziente scorge per terra un foglio stropicciato. Si tratta di uno strumento psicometrico grazie al quale era possibile stabilire se i pazienti con disabilità psichica potessero essere ritenuti produttivi per lo Stato. Produttivi e quindi degni di stare al mondo, di essere trasferiti dall'ospedale psichiatrico a una struttura riabilitativa che li avrebbe aiutati a reinserirsi nella società. Almeno questo era lo scopo ufficiale di quei test. Questo era stato raccontato al medico della struttura, e a molti altri medici, da Hitler e dal governo del Terzo Reich.



Ma era tutto un inganno, ed è quello che il medico dice all'unico paziente rimasto nella sua struttura. Quest'ultimo non comprende perché, nonostante abbia raggiunto il punteggio minimo necessario ad essere riabilitato, non viene ancora trasferito alla struttura riabilitativa in cui è andata la sua amica Ally.

Parlando di lei il paziente rievoca un altro personaggio, realmente esistito ma stavolta non interpretato dall'attore. Si tratta dell'avvocata Aelen Melanie Level, una paziente psichiatrica alla quale, in seguito al lutto per il suo fidanzato e ad un conseguente e forte crollo psicologico, era stato diagnosticato erroneamente un disturbo schizoide, e che fu successivamente spedita a Brandeburgo in quella che il medico e il paziente credevano essere una struttura riabilitativa.

In realtà si trattava di un centro di sterminio dove uccidevano i disabili mentali nelle camere a gas allo scopo di testarle. In questo centro veniva infatti applicato il programma "Aktion T4", detto anche "Programma T4" , o "Operazione T4", ovvero il programma di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e di persone con disabilità mentali (ma non fisiche, se non per casi gravi).



Durante il dialogo fra il medico e il paziente, in uno scatto d'ira, dovuto alla consapevolezza di aver mandato a morire quasi suoi pazienti, e al tormento che ne deriva, il medico rivela al paziente la verità su Ally e sulle vere intenzioni del governo nei confronti dei pazienti come lui. Il paziente è incredulo di fronte a tanto male e alla follia di cui è capace l'essere umano, così si autoconvince che tutto questo non può essere vero, che un giorno rivedrà la sua amica. Poi a un certo punto sembra eclissarsi e tornare al punto di partenza, a quando conta le mattonelle e prende in mano il foglio stropicciato. Forse la sua malattia è tornata possederlo in modo totalizzante, ad annullare la sua razionalità, che pure è presente in lui. O forse è meno devastante azzerare tutto piuttosto che tornare a illudersi credendo nel sogno di vedere se stesso come un uomo. Produttivo, utile alla società. Piuttosto che accettare l'impossibilità di rivedere la propria amica. L'uomo è condannato a rimanere solo, ma almeno vivo, e non carne da macello per i nazisti.

Durante tutta la performance Anzilotti ha saputo dare corpo e voce a personaggi tra loro, ha vestito nei loro panni con estrema versatilità e senza risultare mai banale: è stato un ingenuo ragazzo innamorato, uno sportivo dalla scorza dura e dal cuore pura, un disabile con i modi e la voce ingenua di un bambino. E alla fine fa parlare nuovamente ognuno di loro, dando voce ai loro piccoli grandi sogni che sopravvivono alla crudeltà delle loro vite e delle loro morti: la speranza del ragazzo di riconciliarsi col padre, il sogno di Trollmann di ricongiungersi finalmente ai suoi cari, anche dopo la morte, la speranza del paziente di rivedere Ally ed essere visto dalla società come un uomo utile. Quest’ultimo aspetto del testo ci riconduce all'importanza degli affetti, che secondo l’autore sono appunto le nostre radici. Da qui il titolo dell'opera.



Antonio Anzillotti si è formato alla scuola di recitazione “SMO”, ha diretto e interpretato spettacoli premiati come “Rukelie”, dedicato proprio a uno dei protagonisti di "Radici", con la compagnia “Macondo” e ha collaborato con il Teatro Orfeo di Taranto. Ha diretto e interpretato diverse performance sul tema della disabilità, rielaborando alcuni testi presi dal cinema e dalla narrativa: Profumo di Donna, Mi chiamo Sam e Lettera al padre di Kafka. Li ha inoltre che proposti durante convegni scolastici ed eventi universitari. Ha partecipato a Qui non è Hollywood, serie dedicata al delitto di Avetrana, in onda questo periodo su Disney+. Ha avuto diversi premi e riconoscimenti artistici e con "Radici", è riuscito ad arrivare in finale al Roma Fringe Festival 2019, aggiudicandosi una Menzione Speciale della Critica per “Meriti Storici e Culturali”.

Durante la nostra intervista ha affermato che stava per riporre "Radici" in un cassetto, e che era molto felice dei riscontri che invece il suo testo ha continuato a ricevere. Siamo contenti che abbia scelto di donarlo al pubblico catanese, che lo ha accolto con tanto entusiasmo.

 

Francesca Sanfilippo

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