Lo spettacolo ha inaugurato la XII stagione teatrale 2024/2025 di "Palco Off"
Sabato 16 e Domenica 17 novembre è andata in scena, presso lo storico Teatro del Canovaccio di Catania, la pièce teatrale Virginedda Addurata 2.0, per la regia di Nicola Alberto Orofino, con Egle Doria e Francesca Romana Vitale. Il testo è della scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa, la produzione si deve all'associazione La Memoria del Teatro. Lo spettacolo inaugura la XII stagione teatrale di Palco Off.
Lo spettacolo era già stato messo in scena a Catania nel 2016 con il titolo Virginedda Addurata. "Virginedda Addurata 2.0" è una riduzione teatrale di questo testo in cui Giuseppina Torregrossa ci racconta, intessendo il tutto con la magia della letteratura, ma senza stravolgere o modificare i fatti, la vicenda scabrosa di un femminicidio avvenuto nel 2012 a Trapani: Maria Anastasi viene massacrata con almeno 8 picconate alle testa dal marito, Salvatore Savalli, e dalla sua amante, Giovanna Purpura. Dopodiché il suo corpo viene bruciato. Maria lascia orfani i suoi tre figli, avuti dal matrimonio con Salvatore, e muore con in grembo un quarto figlio.
Nel racconto della Torregrossa la protagonista è la santa patrona di Palermo, ovvero Santa Rosalia, venerata e addurata (adorata) dai fedeli che le rivolgono suppliche nel suo santuario, situato nella grotta del Monte Pellegrino.
In questa storia, però, la Virginedda si rivela una santa un po' atipica, sopra le righe, e soltanto apparentemente impassibile. All'inizio della pièce non ha la sua corona di rose in testa, né la sua tonaca. Nella prima esilarante scena di questo spettacolo, che conquista fin dai primi secondi l'attenzione dello spettatore, vediamo una Santa Rosalia in vestaglia e ciabatte, che indossa un turbante colorato e occhiali da sole variopinti, che beve caffè, che danza e che parla come una donna comune e non con tono solenne. Che presenta un tremore alla mano, un chiarissimo sintomo del Morbo di Parkinson. È quindi una santa umanizzata, non una statua immobile sull'altare.
Torna a vestire i suoi panni e la sua aura sacra, pur continuando a interagire col pubblico e con gli altri personaggi, quando ascolta le confessioni dei suoi fedeli: Maria, la vittima di questo atroce fatto di cronaca, sua figlia, l'amante del marito, la madre di Maria. Perfino il marito della vittima compie il suo pellegrinaggio al santuario, raccontandosi e compiacendosi delle sue malefatte.
Quest'ultimo è l'unico personaggio, insieme alla Santa, interpretato da Francesca Romana Vitale, che ha sorpreso il pubblico con il suo talento encomiabile e, grazie all'ironia che ha saputo donare al personaggio, ci ha fatto accantonare, per tutta la durata della messa in scena, la crudezza dei fatti di cronaca e lo sgomento che sempre suscitano nelle coscienze. O quanto meno ha fatto da contrattare a tale crudezza. Compito, questo, che è stato reso possibile anche dalla riscrittura del testo, cui è stata partecipe anche la stessa Giuseppina Torregrossa, dalla regia che ha asciugato il testo e reso tutto più essenziale, e dalla competenza ineccepibile di Egle Doria.
La prima a parlare con la santa è Maria, una donna ingenua che ha sposato in giovanissima età un uomo più grande di lei, Giuseppe. Sin dal primo momento diventa preda delle sue angherie, ma prima ancora e più di questo, vittima di un concetto tossico e non veritiero dell'amore: la smania di possesso, l'oggettificazione di un altro essere umano, privato della sua volontà e libertà, del suo diritto di esistere come individuo anziché in qualità di accessorio del partner.
Tutto era stato preannunciato da una violenta scenata di gelosia seguita un'esclamazione agghiacciante, per quanto ancora oggi ammantata di romanticismo, Tu si 'a mia, che Giuseppe le aveva rivolto con tono aggressivo quando erano ancora fidanzati. Ma la giovane non dà peso a questo episodio, fugge con lui anche contro il volere della sua famiglia e lo sposa. Condanna così se stessa a una vita di violenze sia fisiche che psicologiche, non ultimo il tradimento del marito, che arriva ad imporre la presenza in casa della sua amante e dei figli di lei.
Eppure Maria, come il resto dei personaggi femminili di questa vicenda, a parte il carnefice, che prende e distrugge tutto ciò che vuole, non chiede a Santa Rosalia né un po' di consolazione né la forza di reagire ai soprusi. Le rivolge invece delle preghiere intrise di rabbia distruttive. Vere e proprie maledizioni dettate da un sentimento di vendetta e rivalsa. Nel caso di Maria, la rabbia e l'odio sono rivolte alla sua rivale, non al marito al quale non sa ribellarsi e del quale tenta di riconquistare ed elemosinare "l'amore".
È interessante vedere come una delle canzoni che animano questa kermesse, scelta insieme ad altre canzoni da una regia che non lascia mai nulla al caso, è "Riderà", storico successo di Little Tony, un testo che parla dell'amore altruista, quello che pensa al bene dell'altro sopra altro valore. L'amore che dovremmo ricercare tutte e tutti, e non soltanto le donne vittime della violenza di genere. Ma è anche una canzone che rimanda a un romanticismo vecchio stile, nato in un'epoca in cui l'amore, soprattutto quello coniugale, veniva idealizzato, e in cui non vi era alcuna elementare conoscenza realistica dei rapporti umani, dei meccanismi psicologici che sottendono ad essi e che motivano la scelta di un partner piuttosto che un altro.
Altri personaggi della vicenda chiave sono la madre e la figlia di Maria. La prima vorrebbe che ad essere annientato fosse invece il degenerato che ha sempre maltrattato figlia e che ha traumatizzato la nipote. Quest'ultima condivide il desiderio della nonna. Poi c'è l'amante di Giuseppe, che rivolge il suo odio alla moglie e cerca di convincere la santa, (o in realtà se stessa), di essere soltanto una vittima dell'amore e del forte desiderio che prova per l'uomo con il quale, e per il quale, ha commesso un omicidio.
A interpretare queste donne è un'eclettica Egle Doria, attrice catanese dall'estro inconfondibile che ha saputo mettere in campo modulando voce, movenze ed espressioni per caratterizzare compiutamente e con efficacia ogni personaggio, da vera trasformista quale è.
La vediamo abbandonare il palco e poi da dietro le quinte apparire in platea con un personaggio diverso, del quale lascia un indumento in un attaccapanni situato in fondo al palco. Una volta finito di lavare l'animo grazie allo sfogo di fronte alla Vergine, lasciano lì nella grotta i loro panni anziché realizzare a pieno la loro identità di persone, prima ancora che donne, liberandosi da un'esistenza che è una morte lenta. La loro determinazione viene soltanto simulata da quei piani di violenza che suggeriscono alla loro patrona, lasciandola basita e sconvolta.
L'atteggiamento della santa, i suoi sguardi di ammonimento, le sue parole, le sue espressioni facciali e tutto il suo linguaggio non verbale, richiamano quelli di una matriarca siciliana che vorrebbe redarguire i suoi figli e nipoti e dir loro di reagire. Ma in realtà i santi e peccatori parlano diversamente. I primi non hanno nulla a che vedere con le vicende terrene, e viceversa.
Ed è proprio questa una delle tematiche indaga il testo: il rapporto che abbiamo con i santi. Cosa direbbero se potessero scendere dal piedistallo e rispondere alle nostre preghiere? Sono degli esempi da seguire per noi? O abbiamo bisogno dei santi per delegare a loro i doveri etici e le responsabilità che non ci prendiamo in carico? Non ultima quella giustizia terrena che richiede coraggio e fermezza negli intenti?
La vera protagonista di "Virginedda Addurata 2.0" è infatti l'immobilità delle vittime. La violenza subita e taciuta, più ancora di quella agita. È significativa a tal proposito la contrapposizione fra una delle protagoniste, Santa Rosalia, una statua che si muove e prende vita, e i personaggi femminili in carne ed ossa che, che come sculture di marmo rimangono inerti, schiavi dei loro schemi di comportamento e ripiegati nelle loro prigioni personali, non importa che si tratti di paura, di passività o di dipendenza affettiva. Non reagiscono, non denunciano, non si ribellano. Non si proteggono a vicenda, perpetuando così la violenza agita.
Si autodistruggono dunque con la “non-azione”, con i sentimenti che ristagnano e non esplodono, con il senso di giustizia inesistente, sostituito da un livore sterile, con le reazioni e le emozioni represse. Per dirla alla maniera di Fernando Pessoa, i veleni che le uccidono sono "mondi di violenze immobili".
Questa realtà è ancora molto diffusa nel nostro tessuto culturale, e non si può negare quanto sia più subdola e pericolosa questa cultura del terrore che imputridisce nella nostra psiche e che, in assenza di cure, diventa cancrena. Lasciandoci senza scampo.
Una delle cure per questo morbo è la sensibilizzazione dell'opinione pubblica, grazie all'arte impegnata e alla cultura intesa come fonte di accrescimento del nostro senso civico e della nostra consapevolezza. Per questo, ad oggi abbiamo ancora bisogno di spettacoli come questo. Per sconfiggere l'immobilità.
Francesca Sanfilippo