Nicola Alberto Orofino è Harry, il protagonista di una celebre opera di Steven Berkoff

 


Il 19 e il 20 dicembre è andato in scena allo storico Teatro del Canovaccio, sito a Catania in Via Gulli, la pièce teatrale Il Natale di Harry, diretto e interpretato da Nicola Alberto Orofino, prodotto dall'associazione culturale MezzAria Teatro, e con la partecipazione di Francesco Bernava. Il soggetto è tratto dal libro Kvetch (Piagnistei). Il Natale di Harry Acapulco, di Steven Berkoff, che consta in tutto di tre testi teatrali, che danno il titolo al libro: Kvetch; Il Natale di Harry; Acapulco.

Siamo negli anni ‘80 del secolo scorso, in un'Inghilterra che prospera come molti altri Stati europei che vivono una significativa ripresa economica. Il consumismo e le leggi del mercato hanno cominciato ad ammantare le coscienze e la cultura di massa. Si diffonde nuova forma mentis, improntata sulla tendenza gregaria, e non più sul senso di appartenenza e i valori comunitari della solidarietà e della fraternità, basata sul conformismo dei bisogni, dei gusti, degli stili di vita. Ma anche sul conformismo degli obiettivi. Ci si aspetta che una persona giovane si butti nella mischia e partecipi ai party più “in”, che conduca una vita mondana e che abbia una comitiva con cui sballarsi. È suo dovere però, a un certo punto, trovare un lavoro sicuro (il tanto agognato posto fisso), sposarsi e mettere su famiglia. Ci sono già, in quegli anni, tutti i germi necessari affinché si sviluppi quella che il filosofo e sociologo Bauman definirà poi "società liquida" in un suo celebre saggio del 2002, intitolato appunto "Modernità liquida". Chi non si adatta ai diktat di una collettività indifferente, individualista e piatta, incapace di valorizzare realmente le diversità, è un outsider. Ha il marchio dello sfigato, destinato a una rapida morte sociale.



È in questo contesto che si innesta la vita del protagonista, Harry, un quarantenne nevrotico e depresso che vive da solo nel suo anonimo appartamento londinese. Lui non ha una comitiva, non ha amici, non ha un amore. È isolato, ancor prima di essere solo. E per questo non si sente normale, né perfettamente integrato nel tessuto sociale. A Natale la voragine dell'isolamento si allarga, e lui tenta di tutto per non caderci dentro. La prima scena si apre con Harry che irrompe nel suo appartamento addobbato alla meglio con un albero di Natale e un pupazzo di Babbo Natale sul comodino. Il protagonista è apparentemente gasato ed eccitato per l'imminente arrivo del Natale. Siede davanti al suo albero adornato con dei biglietti di auguri natalizi, che prendono il posto dei tradizionali addobbi. Mentre con una mano regge una tazza da tè, estrae altri bigliettini di auguri da una scatola. Con un tono concitato li conta tutti, compreso quello che gli ha spedito l'ufficio per cui lavora, nel tentativo ingenuo di autoconvincersi che una volta raggiunto un certo numero di bigliettini da appendere sull'albero, potrà dire a se stesso di ricevere attenzione e non essere un uomo solo ed emarginato. È a questo punto che interviene una voce a smentire, quella del suo albero del Natale, il quale durante tutto il dramma funge da coscienza di Harry. Lo contraddice, lo pungola, talvolta anche in modo aspro, per spronarlo a guardare dentro di sé e ad agire. A compiere per primo qualche passo verso quel mondo esterno di cui l'uomo non sopporta le ipocrisie, ampiamente amplificate nel periodo natalizio, ma nei confronti del quale non riesce ad aprirsi a causa delle sue insicurezze e delle sue paure. Nell'appartamento è presente anche un telefono fisso, che Harry deciderà di usare dopo tanti tentennamenti ed esortazioni da parte dell'albero/coscienza. Sarà grazie a queste telefonate, dove ascoltiamo soltanto le domande del protagonista ai suoi interlocutori, e le sue risposte ai loro interventi, che entriamo realmente nella vita di Harry. Nel suo mondo, fatto di relazioni sentimentali finite male, di amici inesistenti, di una famiglia che non vede mai. Di una madre che lui non chiama mai, e con la quale non riesce a comunicare senza litigare ed esplodere di rabbia. È un uomo devastato da fiumi di risentimento e rancore, dei quali riesce a prendere consapevolezza in questo incalzante dialogo tra dentro e fuori, tra la voce diretta e cruda della sua coscienza e il suo sé più smarrito e passivo, quello che cerca scuse e retaggi per non uscire fuori dall'anoressia relazionale che lo uccide. Ma lui ha una gran voglia di vivere, disperata e forte come può esserlo soltanto quella di una persona depressa e sola, e decide di aggrapparsi a questo desiderio ardente con tutte le sue forze. Tenta di vincere le barriere telefonando, a volte implorando un incontro. Non rinuncia all'idea di un futuro più bello della sua vita attuale, né a quella di ricevere un sì da parte del mondo esterno. Un sì che però non arriva. Per l'indifferenza che dilaga? Perché lui si è lasciato scappare delle occasioni? O perché in fondo ognuno prende la sua strada? Non conta sapere il motivo, o se questa storia sia più un dramma sociale o un dramma individuale. Di certo Harry è figlio del suo tempo, come tutti noi, ma la cosa più importante è ciò che lui rappresenta. Non soltanto il prossimo che soffre e che bussa alle nostre porte, per poi essere rifiutato. Harry è tutti noi, ogni volta che ci troviamo da soli con i nostri fantasmi, lontani dal lavoro, che ci consenta di non pensare ai nostri problemi, lontani dal gregge. Dalle feste. Da un'allegria troppo spesso forzata e ostentata, e che non ammette alcuna fragilità. Chi siamo noi, quando restiamo soli? Quando rimaniamo in silenzio e guardiamo il vero volto, il nostro e quello della vita? Siamo disposti a fare degli sforzi per abbattere i muri? Siamo ancora capaci di creare delle connessioni con gli altri, che non siano soltanto virtuali? Evanescenti? O è più facile mandare messaggi sui social, che spesso anestetizzano l'ansia sociale e coprono sotto un tappeto di pixel timidezza, paure e abulia? Sono queste le riflessioni e le provocazioni che scuotono la coscienza dello spettatore mentre patisce e spera insieme ad Harry. Mentre il protagonista si racconta senza farsi degli sconti, ma riconoscendo tuttavia se stesso come una creatura meritevole d'amore, in un'autoanalisi graffiante dove non mancano ironia e tenerezza, e dove si viaggia a temperature emotive molto forti. Temperature che l'attore e regista ha saputo rendere senza mai scadere in quell'enfasi che snatura la sostanza autentica del testo e del sottotesto di un'opera, della quale ogni attore si fa veicolo con il suo corpo e la sua voce.

Nicola Alberto Orofino è riuscito a muoversi con maestria e con la giusta intensità da un polo all'altro della terra di emozioni che il suo personaggio offre: la tristezza più profonda e la rabbia isterica, l'eccitazione più disperata e lo smarrimento, lo sconforto e la speranza, soprattutto quella legata al desiderio e al ricordo di un amore lontano, la paura unita alla pusillanimità, sostituite poi dal coraggio e dalla voglia di un rilancio. Il rancore per gli altri che poi cade come una maschera, rivelando il bisogno d'amore. Ha regalato così al pubblico un personaggio profondamente umano, anche e soprattutto nei suoi limiti e nelle sue debolezze, una storia struggente e vera, con un finale tutto da scoprire.

La voce fuori campo dell'albero/coscienza è dell'istrionico attore Francesco Bernava, che ha recitato in diverse pièce sotto la regia di Nicola Alberto Orofino ed è anche membro dell'associazione teatrale "MezzAria Teatro".

Alle scene e i costumi ha lavorato Vincenzo La Mendola, all'organizzazione Filippo Trepepi, alla sartoria Grazia Cassetti. Assistente alla regia: Gabriella Caltabiano.

 

Francesca Sanfilippo


ADV ----- >




top