Claudio Zappalà porta in scena "L'arte della resistenza"

 


Il 17 e il 18 febbraio è andata in scena, allo Zō Centro Culture Contemporanee, la pièce teatrale L'arte della resistenza, della compagnia Barbe à Papà Teatro, per la regia di Claudio Zappalà, con Chiara Buzzone, Federica D'Amore, Totò Galati e Roberta Giordano.

 Lo spettacolo, che ha visto il suo debutto nel 2022 ed è stato scritto da tutti i membri della compagnia, fa parte della rassegna di Palco Off, e chiude la trilogia Generazione Y ideata dalla compagnia “Barbe à Papà Teatro”. È infatti il capitolo conclusivo di un progetto lanciato anni fa con Il coro di Babele (2019), seguito da Mi ricordo (2020). La generazione Y, o dei Millennials, è quella dei giovani che sono diventati adulti durante il terzo millennio, poiché nati tra il 1981 e il 1996. La generazione dei contratti a tempo determinato, del futuro rubato, della rivoluzione digitale,della nascita dei social network, di cui i giovani non conoscono ancora le implicazioni legali e psicologiche.

In questa pièce teatrale è la compagnia a mettere in scena se stessa. Protagonisti sono infatti i suoi attori: Chiara, Totò, Federica e Roberta. Un gruppo di amici che hanno in comune la passione del teatro, un sogno che forse, come si preannuncia sin dalle prime battute, sta per spegnersi. La scena infatti si apre con loro quattro che si preparano a mettere in scena il loro ultimo spettacolo, sostenendosi a vicenda e cantando canzoni spensierate. Dopo iniziano a confidarsi, mentre dividono la merenda, e condividono le loro paure, non soltanto quelle inerenti allo spettacolo. Raccontano le loro vite, le gioie, le delusioni, le aspettative fallite. Sul palco sono presenti solo quattro sedie, del cibo, un attaccapanni e un separé per cambiarsi per cambiare il proprio abito. Un abito diverso per ciascuno dei quattro momenti della rappresentazione teatrale. I quattro amici si interrogano sul loro futuro e sulla loro condizione di lavoratori e di lavoratrici, la maggior parte di loro precari.



C'è Federica, che non è riuscita a soddisfare le aspettative che le sue famiglia aveva su di lei, e per questo è delusa da se stessa. Lei è la prima a raccontarsi, infatti le riflessioni e le emozioni che seguiranno da quel momento in poi, prendono spunto da una sua domanda:

«Si può fare teatro quando si è depressi?»

Dopo il suo sfogo disperato è la volta di Chiara, che ha rinunciato alla sua gavetta di supplenze finalizzata a ottenere la cattedra di insegnante alle scuole superiori. Lo ha fatto per inseguire il suo sogno della recitazione, e perché crede ancora che il mondo si possa cambiare con il teatro e con la poesia. Ma il coraggio di inseguire i sogni al posto delle certezze e delle strade più battute (e più approvate dalla società), le sta costando moltissimo. La stessa che provano tutti coloro che si scontrano con la realtà e con un contesto geografico che non aiuta gli artisti. E poi c'è Roberta, che invece vive una situazione opposta a quella dell'amica: dopo la pandemia da Covid-19 aveva deciso di accettare un lavoro da commessa in un famoso negozio di abiti griffati. Inizialmente il suo contratto a tempo determinato prevedeva tre mesi, poi i mesi sono diventati sei, e adesso la ragazza lavora a tempo indeterminato. Non è il lavoro dei suoi sogni, ma le dona quel po' di serenità che le lotte per sfondare in teatro non hanno saputo darle. Le permette infatti di uscire con gli amici, ordinare la pizza quando vuole, vivere in una casa tutta sua, comperare oggetti che le piacciono. In definitiva, può godere delle "piccole cose". E sono proprio le gioie semplici quelle a cui Totò, nel momento in cui vede che le sue amiche andare in apnea, al centro del palco, alzando la mano in un gesto che richiama la ricerca di aiuto quando si sta annegando, fa riferimento per salvarle dalla voglia di spezzarsi, di cadere in un vuoto invisibile ma onnipresente. Lui le sprona a reagire, chiedendo loro di ricordare quelle gioie eliminando le quali la vita non è più vita. Perché in fondo sono tutte in preda alla disperazione, anche chi si autoconvince che il dolore per aver rinunciato ai propri sogni passa, e che l'importante è scegliere ciò che fa meno male. Totò è l'ultimo a parlare di sé al centro del palco, a nemmeno un metro dalla prima fila di spettatori. Nonostante le sue ansie per il futuro, vuole ancora credere nei suoi progetti, e nel fatto che il presente sia un dono. Ma anche lui in fondo cerca solo di convincere solo se stesso, e a un certo punto si sente annegare, vuole spegnere il suo dolore ma viene salvato dalle amiche.



A momenti di smarrimento e di forte fragilità si alternano, durante lo spettacolo, anche risate e ironia. Non manca neanche un momento musicale: una canzone di Baglioni, le cui parole scorrono su una tela enorme, e che i protagonisti cantano durante una festa di Capodanno in cui si mostrano al pubblico con abiti scintillanti, diversi rispetto a quelli delle scene precedenti. Una scelta di stile è stata quella di Roberta Giordano, che ha indossato una parrucca rosa con taglio a caschetto, come Natalie Portman nel film "The Closer". Prima di brindare con il prosecco eseguono il conto alla rovescia prima della mezzanotte, e la conta viene spesso interrotta dalle speranze che ogni persona-personaggio tira fuori durante questo momento di euforia. Ma di nuovo arriva l'angoscia quando la più vulnerabile del gruppo, Federica, ha un crollo psicologico. A quel punto il palco si trasforma in uno scenario tribale, quasi apocalittico. C'è buio in sala, delle candele vengono accese, lei è al centro del palco e indossa, come il resto della compagnia degli abiti neri e che richiamano a un mondo ancestrale. Attorno a Federica, i compagni intonano una nenia un po' lugubre, hanno in mano spade e mazze e simulano gesti da guerrieri. Lei, in ginocchio su una manciata di terra grida la sua rabbia contro la società, contro i potenti, che hanno rubato il futuro alla sua generazione e che permettono ancora l'esistenza delle guerre. Contro quei mali del mondo che ancora si rigenerano fin dalla notte dei tempi, e fin da quando sono stati scritti i primi classici del teatro, fra cui le tragedie di Sofocle, richiamata da questa scena primitiva, di pura rabbia e protesta. D'improvviso, Federica si accascia a terra, sopra una sorta di culla di terreno. E il pubblico non può fare altro che chiedersi se si spezzerà definitivamente o risorgerà dalla terra, forte di una nuova speranza. O se anche spezzarsi sia un atto di resistenza. Non rimane che scoprirlo guardando lo spettacolo che, a differenza da quanto dicono i personaggi all'inizio, non sarà l'ultimo della compagnia. Infatti anche i testi più autobiografici, da sempre sono comunque romanzati e ispirati. Ma sopra ogni cosa, questa drammaturgia è ben lontana dai toni autoreferenziali che spesso, a torto o a ragione, imputiamo alle opere autobiografiche. Questi giovani attori parlano ad altri giovani e a tutte le generazioni, interagiscono col pubblico per tutta la durata dello spettacolo. Scuotendo gli spettatori, sollecitando in loro domande sul futuro che stiamo preparando per le nuove generazioni. Sulle possibili soluzioni da approntare per cancellare la desolazione e le incertezze di questo presente. Parlano all'Italia e dell’Italia. Se noi li osserviamo recitare, distinguendosi per l'autenticità e la capacità di coinvolgere gli altri, grazie a una carica emotiva molto rara, comprendiamo che questi artisti non stanno parlando soltanto di loro stessi. Che loro siamo noi. E loro sono i nostri giovani, i nostri figli e i nostri nipoti. Abbiamo bisogno di spettacoli come questi e di compagnie come "Barbe à Papà Teatro", che osano pensare a quest’arte, ancora oggi e, aggiungerei, coraggiosamente, come a uno strumento educativo, di protesta e di sensibilizzazione delle coscienze. Esistono ancora dei pazzi che vogliono cambiare il mondo con il teatro, con la poesia, con l'arte.

 

Francesca Sanfilippo


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