Antonella Caldarella mette in scena "La Loba"

 


Venerdì 10, Sabato 11, e domenica 12 maggio, è andato in scena alla Sala Roots di Catania La Loba, spettacolo prodotto da Teatro Argentum Potabile, per la regia di Antonella Caldarella, con Maria Riela, Clara Baudo e Chiara Sciuto. Musiche di Andrea Cable, costumi di Gaetano e Maria Riela.

La pièce è una riscrittura in chiave drammaturgica di cinque fiabe popolari tratte dal libro di "Donne che corrono coi lupi", di Clarissa Pinkola Estés, psicanalista junghiana, etnologa e psicologa clinica.

Non si tratta di un semplice saggio psicanalitico, ma di un'opera a forti tinte spirituali e poetiche in cui la Estès, attingendo alle fiabe e ai miti delle più svariate tradizioni culturali, fonda una psicanalisi del femminile che ruota attorno al modello archetipico della Donna Selvaggia, intesa come la forza psichica potente, istintuale e creatrice, che appartiene a tutte le donne sane. Tale energia è spesso soffocata da paure, insicurezze derivanti da ferite non curate, da violenze subite, da stereotipi. Ma quando le donne smarriscono e dimenticano il loro sé più autentico, in loro aiuto accorre La Loba, una vecchia che abita in un luogo nascosto dell'anima. La sua occupazione è raccogliere ossa, soprattutto quelle di lupi e, quando ogni osso è al suo posto, ella siede accanto al fuoco e canta fino a quando le ossa si riempiono di carne. In questo passaggio la Loba è simile alla Donna Scheletro, protagonista di un'antica leggenda Inuit riportata nel libro di Clarissa Pinkola Estès, e quindi di uno dei cinque racconti scelti da Antonella Caldarella per la messa in scena de "La Loba". La Donna Scheletro era una ragazza gettata in mare dal suo stesso padre, poiché aveva fatto qualcosa che lui aveva disapprovato e che, tuttavia nessuno, compresa lei, ricordava. Ella si salvò, per merito delle lacrime di un pescatore, che la dissetano, e del suono del cuore di lui, che la donna prende in prestito, per poi battere le mani su quel cuore-tamburo, cantando vicino al fuoco acceso dal pescatore, fino a riscoprirsi di carne e di vestiti.



Le fiabe scelte da Antonella Caldarella sono: "Pelle foca, Pelle d'Anima", la storia di una donna foca che viveva nel fondo dell'oceano, simbolo dei fondali inesauribili della vita creativa della donna, e che per adempiere al ruolo di moglie si spoglierà della sua vera pelle e sposa un pescatore, condannando se stessa senza saperlo; "La donna scheletro"; il mito latino americano della Llrona, una giovane donna di umili origini che, dopo essere stata sedotta e illusa da un uomo ricco che prenderà poi in moglie una donna del suo rango, per rabbia e per vendetta getta nel fiume i figli generati; il racconto mitologico "I tre capelli d'oro", che narra di un vecchio divenuto ragazzo, poi bambino ed in fine Sole, grazie ai poteri trasformativi di una vecchia maga saggia, assimilabile a Baba Jaga; la storiella intitolata "La donna dai capelli d'oro", in cui la protagonista riesce persino da morta a vincere sul suo assassino.



La struttura dello spettacolo propone un perfetto amalgama tra momenti narrati, performance attoriali che rimandano al coro greco, canti, e movimenti di danza. Prima ancora del momento narrativo e performativo, il pubblico si trova subito catapultato in una sorta di atmosfera arcaica, in quanto, mentre prende posto sulle sedie disposte sia di fronte frontalmente al palcoscenico e sia su entrambi i lati della sala Roots, sul palco aleggia un fumo bianco, che avvolge tutta la platea. Come a simboleggiare un luogo senza tempo né spazio, primitivo, un po' magico. Forse il luogo dove di notte Madre Nyx, l'antica Madre dei Giorni, o dove si svolgono i riti di Baba Jaga, o semplicemente quello strato della psiche istintuale da dove emerge il respiro (il fumo) dell'anima selvaggia. L'interpretazione appartiene allo spettatore, come deve essere quando si vuole proporre uno spettacolo che rende davvero partecipe il pubblico, stimolando l'immaginazione. Pian piano, in questa atmosfera ovattata e onirica si fanno spazio sul palco tre figure, tre ragazze che camminano a piedi nudi e indossano abiti primordiali e succinti, dalle cui gonne, oltre che dal busto, pendono lembi di corda, in linea con l'ambientazione di buona parte dei racconti, caratterizzata da luoghi marittimi e bagnati da un fiume. Le ragazze si tengono per mano e cantano in assoluta sincronia, e con voci soavi, una nenia antica. Poi si voltano a guardare il pubblico e, in alternanza, iniziano a raccontare la prima fiaba popolare, mescolando il racconto a una teatralizzazione che comprende, in modo organico e mai discontinuo, dei movimenti del corpo e una mimica facciale cuciti ad hoc sui vari momenti dell'intreccio narrativo, e soprattutto sulle emozioni dei personaggi. Emozioni che sembrano fluire sia dai volti delle attrici che da ogni segmento del loro corpo, grazie alla precisione e alla leggiadria con le quali viene eseguito il tutto, per poi esplodere al momento opportuno in danze e canti che si innestano perfettamente nelle musiche originali di Andrea Cable, anch'esse elaborate in accordo con il quadro generale dello spettacolo. Per la regista è infatti importante che ci sia un'empatia reale fra i vari membri della squadra, e ognuno di loro deve concorrere, col suo singolare particolare contributo, alla realizzazione di uno spettacolo dinamico che dev'essere considerato, come afferma la Caldarella, un rito di offerta al pubblico.



A tal proposito, abbiamo intervistato la regista, chiedendole delle suggestioni che l'hanno guidata nel percorso creativo che ha portato alla realizzazione de "La loba".

-Cosa l'ha ispirata di queste fiabe?-

«Mi hanno ispirato le cinque fiabe che ho scelto perché sono racconti che parlano alle donne, alla loro psiche umana, tentando di risvegliare la loro vera natura, attraverso delle storie eterne e ricche di simbolismi inerenti. Come sappiamo, le fiabe non sono mai un prodotto letterario adatto ai bambini e pensato per i bambini. Non nella loro origine popolare, almeno. Ed è proprio questa la versione riproposta nel libro di Clarissa Pinkola Estès»

-Qual è il messaggio che ha voluto donare al pubblico, attraverso questo spettacolo?-

«Non è che io voglia dare un messaggio unico e assoluto. Vede, il bello delle fiabe, il loro scopo, che poi è in linea con la mia concezione del teatro, è che ci colpiscono proprio perché nei loro contenuti c'è qualcosa che risuona in noi, e che cura le parti più recondite della nostra anima. Qualcosa che però non è uguale per tutti, ed è sano che ognuno ci veda qualcosa di diverso in una storia. Spesso, quando in teatro si studiano i classici, ci si concentra soltanto sull'analisi del personaggio, ma anche quando si mettono in scena i classici può succedere che ognuno degli spettatori riflette su degli spunti diversi. Anche guardando Pirandello, il quale nelle sue commedie sviscera totalmente e chiaramente, mettendola in bocca ai suoi personaggi, la sua concezione dell'uomo e del mondo, lo spettatore può comunque captare dei messaggi in piú rispetto a quelli che aveva in testa Pirandello. Il teatro è raccontare delle storie che ci piacciono per la loro bellezza, e poi riuscire, grazie al bello che possono donare tutti gli elementi e le arti che concorrono in eguali misura alla riuscita di una rappresentazione teatrale, ad offrire al pubblico tanti stimoli e tante possibili visioni, senza stare sempre lì ad analizzare tutto. Ecco, questo è il teatro che amo, ed è il teatro che voglio sempre fare.»

-Se non sbaglio c'è una fiaba, fra le cinque scelte dal libro della Estès, che è stata riscritta con un finale diverso. Si tratta di Pelle di foca, pelle di anima. Posso chiederle il perché di questa scelta?-

«Beh, quel racconto mi è piaciuto di più, e l'ho fatto un po' più mio. Per il resto la mia è stata una riscrittura fedele, ma dal momento che il linguaggio del teatro e quello della letteratura sono diversi, erano necessarie alcune accortezze. Il racconto "Pelle di foca, pelle d'anima" mi ha colpita di più perché parla dell'essenza delle donne, la quale spesso viene mortificata durante la vita matrimoniale e familiare, che non sempre permette a una donna di essere se stessa, di esprimere e dimostrare la sua vera natura, simboleggiata in questo racconto dalla pelle. Il libro è pieno di simbolismi corporei, le parti del corpo sono in realtà zone psichiche, che chiedono di essere risvegliate o curate. Altrimenti si fanno sentire sotto forma di malesseri, perché c'è sempre energia forte nelle donne, che chiede di essere ascoltata ed espressa. Ed io ho scelto queste cinque storie perché amo raccontare sempe storie di donne forti, l'ho fatto anche in altri moei spettacoli. La forza quasi sovrumana delle donne, è un comune denominatore delle fiabe che ho scelto, perché a parte una sola protagonista, la Llorona, esse riescono sempre ad avere una rivincita. Una rivalsa. E questo mi piace.»

-Quanto possono aiutarci a leggere la società contemporanea le fiabe popolari?-

«Si tratta di storie senza tempo, ed io ho cercato, per quanto riguarda la scenografia, di restituire un ambiente arcaico. Però sono storie antiche e sempre attuali. La Llorona, ad esempio, è una donna che getta i figli nel fiume per fare un infliggere un dolore all'uomo che l'ha ferita e tradita. Ci ricorda un po' Medea, in questo senso. E non si può non collegare la vicenda di questa tragica storia con i recenti fatti di cronaca. Mi piace fare un teatro che scuote, non importa se disturba, anzi è meglio se lo fa. Ovviamente poi può piacere o no, com'è giusto che sia.»



Più che piacere al pubblico, lo spettacolo di Antonella Caldarella lo ha colpito come una freccia di emozione pura, regalando momenti fortemente evocativi, resi anche dal pathos con cui hanno recitato le attrici, sue allieve, e gestiti sapientemente da una regista sempre in cerca di storie che lasciano il segno nell'animo degli spettatori. Che ispirano, e che curano proprio come fa il "canto hondo" delle curanderas citate in "Donne che corrono coi lupi".

 

Francesca Sanfilippo

ADV ----- >




top