La vicenda di Stefania Noce ha segnato uno spartiacque nella consapevolezza sulla violenza di genere

 

Stefania Erminia Noce è nata il 4 febbraio 1987 a Licodia Eubea, in provincia di Catania, a Licodia Eubea, quartiere dove ha passato l'intera sua vita prima di trasferirsi nel centro storico della città etnea per studiare alla Facoltà di Lettere e Filosofia.

Stefania militava nel Movimento Studentesco Catanese, e organizzava collette per le persone degenti, come i terremotati in Abruzzo, dopo il sisma del 2009. In quell'occasione dal suo paese d’origine coordinò una piccola missione con l’aiuto di alcuni amici che partirono per consegnare tutto i viveri raccolti. Si batteva per i diritti delle persone migranti e, da femminista fervente quale era, lottava contro le discriminazioni di genere. Le sue battaglie culturali e politiche non rimanevano chiuse nelle aule universitarie, ma si espandevano anche fuori nelle piazze e in qualsiasi luogo dove fosse possibile dare voce ai diritti delle minoranze. Compresa quella delle donne, che ancora oggi, oltre ai tanti soprusi perpetrati ai loro danni dalle famiglie e dalle istituzioni, subiscono oltraggi alla loro dignità di donne e persone perfino dai giornali che colpevolizzano le vittime di abuso sciorinando titoli ignobili, come quello riportato da "Rimini Today" nel luglio del 2020:

"Ubriache fradicie al party in spiaggia, due 15enni violentate dall'amichetto"

Stefania Noce usava anche un'altra arma potente contro la violenza di genere e contro gli abusi in generale: l'inchiostro. Scriveva su "La bussola", giornale di Licodia Eubea che lei stessa aveva contribuito a fondare. Ha avuto forte risonanza, a tal proposito, un suo articolo intitolato “Ha ancora senso essere femministe?”, nel quale si esprimeva così:

«Nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, né, tanto meno, di una religione».

Poco tempo prima, il 13 aprile del 2011, aveva partecipato alla manifestazione “Se non ora, quando”, durante la quale fu scattata una fotografia, diventata ormai iconica, che la ritraeva mentre mostrava orgogliosamente un cartello con su scritto: “Non sono in vendita”.

Ma Stefania era anche una comune ragazza che divideva la sua vita fra studio, impegno sociale e affetti. Fra questi il più importante era il suo fidanzato, Loris Gagliano, studente di Psicologia a Roma. Stefania comincia a cambiare quando inizia la relazione con lui, dedicandosi completamente a questo rapporto, come afferma anche Chiara, l'amica più cara di Stefania, con la quale condivideva la stanza alla casa studenti di Catania. Loris e Stefania hanno un rapporto apparentemente normale, anche se con dei problemi simili a quelli di tante coppie che vivono una relazione a distanza. Dopo due anni si lasciano per la prima volta, lei è devastata. Quando Loris torna sui suoi passi e lei non accetta subito di accoglierlo lui la perseguita telefonicamente, e da quel momento la coppia trascinerà per altri due anni un rapporto tormentato di codipendenza, segnato da continue liti furibonde. Fino al Natale 2011, quando Stefania tenta di tagliare i ponti, scontrandosi con l'incapacità di Loris di lasciarla andare.

È il 26 dicembre e Chiara invita Stefania a uscire per distrarsi, ma Stefania è agitata, confessa all'amica che Loris le ha rubato le chiavi di casa e una tesina che le serviva per un esame all'università. Chiara, che come Stefania conosceva, fra le altre cose, la passione di Loris per le armi, invoglia l'amica a denunciarlo, con la stessa sollecitudine con cui più volte ha cercato di aprire gli occhi all'amica. Ma Stefania non riesce a trovare la forza per ascoltare il consiglio dell'amica.


«Stefania era buona, non riusciva a vedere il male negli altri. Rimaneva delusa spesso, perché dava fiducia alle persone. Stefania credeva nella gente»
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La mattina del 27 dicembre 2011, la madre di Stefania si era recata dai carabinieri per denunciare la manomissione dei freni di una delle vetture della famiglia. Il mezzo si trovava nel loro garage, del quale Loris Gagliano aveva rubato le chiavi. Mentre stava depositando la sua denuncia, la donna ricevette la telefonata di sua madre (la nonna di Stefania) che annunciava l’arrivo di Gagliano, armato con un coltello. L’uomo stava compiendo la strage nella quale persero la vita la ragazza e suo nonno. I due furono ripetutamente accoltellati e anche la nonna fu ferita gravemente.

Poco dopo l’assassino confessò i delitti, asserendo davanti al suo avvocato di «non conoscere le motivazioni del suo gesto», perché «amava Stefania più della sua vita».

L'amore che non è amore ma soltanto possesso. Di un uomo nei confronti di colei che reputava essere la "sua donna", una sua proprietà. E se non può essere sua non sarà neanche del mondo. Deve quindi morire. Questo è il femminicidio.

Ma se oggi, dopo più di dieci anni dalla morte di Stefania, siamo tutti d'accordo sul fatto che questi crimini debbano essere chiamati con il loro nome, e se la legge è intervenuta in tal senso, lo dobbiamo all' ex consulente della sua famiglia, Pina Ferraro, che nell'aprile del 2013 è riuscita a far inserire questo termine nella sentenza di primo grado del processo contro Gagliano, la cui condanna all’ergastolo è stata poi confermata dalla Corte d’Appello di Catania nel 2014.

Non è stata una battaglia semplice quella della Ferraro, in quanto durante il processo di secondo grado il procuratore Giulio Toscano ha definito il termine femminicidio come «brutto neologismo dal sapore sociologico».

Ecco di seguito le parole che Pina Ferraro ha utilizzato al fine di perorare la sua causa:

«La battaglia per il termine femminicidio serve a specificare che ci sono contesti in cui la donna viene annientata in quanto tale. Non è femminicidio quando una donna viene uccisa in una strage, nel corso di una rapina o da un pirata della strada: è femminicidio quando un uomo la ammazza perché lei è sua, perché lei non lo accontenta. E vale anche se lei è una prostituta e lui un cliente».

Anche grazie alla Ferraro, dunque, la vicenda di Stefania è diventata un seme che ha generato una nuova consapevolezza riguardo le tematiche della violenza di genere.

C'è ancora molta strada da fare per scardinare la cultura della violenza e del patriarcato. Ma continuano a fiorire associazioni che lottano contro l violenza sulle donne. Intellettuali attivisti si impegnano affinché possa essere rivoluzionato persino il vocabolario e il lessico italiano, anch'essi fortemente influenzati dal retaggio patriarcale, con l'intento di lasciare alle nuove generazioni un nuovo modo di dire le cose. Di pensarle quindi. E di conseguenza un nuovo modo di relazionarsi ad esse.

A Stefania Noce sono state dedicate una piazza a Licodia Eubea e un'aula all'ex Monastero dei Benedettini, sede del dipartimento di Scienze Umanistiche, dove Stefania era studentessa.

Quest'ultimo provvedimento lo dobbiamo alla volontà della sua compagna di stanza, Chiara, di costruire qualcosa per l'amica, della quale conosceva non solo i punti di forza, ma anche le fatali fragilità.

Perché dietro l'attivista zelante e determinata c'era una donna bisognosa di affetto e di protezione, che credeva di aver trovato un equilibrio affettivo insieme a un ragazzo che non era mentalmente e affettivamente stabile. Una giovane donna idealista che non vedeva il male nei cuori degli altri esseri umani, men che meno in quello delle persone a lei care. Ma se anche avesse scorto un angolo di cattiveria lo avrebbe taciuto a se stessa, perché aveva paura di essere abbandonata. E sono proprio le donne fragili e impaurite le "vittime perfette" degli uomini violenti e manipolatori. Occorre dunque riflettere su quanto sia facile per ciascuna di noi cadere nella rete di un uomo violento, senza riuscire a vedere il confine fra un rapporto difficile e una relazione tossica. Questo è vero anche se la persona tossica è la donna e la vittima l’uomo. E occorre anche capire, grazie a tale consapevolezza, quanto siano intrisi di ignoranza, superficialità e maschilismo certi titoli di giornale e molte sentenze morali trite e ritrite come ad esempio "se l'è cercata", purtroppo largamente condivise e pronunciate, ahinoi, da donne che mettono in croce altre donne.

Ogni persona, indipendente dal genere a cui appartiene, ha una storia di vita che non conosciamo. È un universo che contiene interi mondi di cui ignoriamo l'esistenza. Ma se anche avessimo la conoscenza totale di un altro essere umano, questa dovrebbe semplicemente rappresentare una lente che ci permette di estendere il nostro "occhio" sulla realtà oltre lo spazio ristretto del pregiudizio. E anche oltre quello del mero giudizio, che non serve né alla cultura né alla nostra coscienza morale.

 

Francesca Sanfilippo

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