Ripercorriamo la storia della prima donna testimone di giustizia contro la criminalità organizzata in Sicilia

Serafina Battaglia

Serafina Battaglia nacque a Godrano, in provincia di Palermo, nel 1919. Sin da bambina venne educata secondo la subcultura mafiosa. Da ragazza fu costretta, secondo le tradizioni delle famiglie malavitose e la forma mentis patriarcale, allora ancora più pregnanti di oggi nel Mezzogiorno, a sposare un uomo scelto dal padre fra i criminali della cosca, dal quale presto ebbe un figlio, Salvatore Lupo. Il matrimonio però fallì e lei andò a vivere con l'uomo di cui era innamorata, Stefano Leale, latitante e piccolo mafioso che adottò il figlio della donna. La scelta di Serafina destò scandalo in un contesto geografico dove lasciare il marito veniva considerato un oltraggio alla morale comune, pertanto Serafina e Stefano non si sposarono né in chiesa e né col rito civile, e non furono mai ben visti dalla popolazione di Alcamo, il piccolo comune in provincia di Palermo dove avevano fondato la loro nuova famiglia. Poiché Stefano era coinvolto nella criminalità organizzata di Alcamo, di cui era a capo Vicenzo Rimi sin da prima del secondo conflitto mondiale, Salvatore Lupo, detto Totuccio, segui le orme del patrigno. Serafina Battaglia divenne così una donna di mafia. Il 9 aprile del 1960 Cosa Nostra uccise Stefano Leale per aver compiuto un presunto atto di infedeltà. Da quel momento la Battaglia si comportò come la classica donna siciliana mafiosa a seguito di un lutto famigliare: iniziò a vestirsi di nero e a piangere il suo compagno, motivando il figlio a portare a termine quello per cui era stato educato.

Nonostante Salvatore Lupo fosse un ragazzo tranquillo, Serafina non smetteva di instillare in lui il sentimento di vendetta.

Ogni mattina ripeteva a suo figlio:

«Alzati che hanno ammazzato tuo padre! Alzati e valli ad ammazzare!»

Alla fine lui si decise ad uccidere Vincenzo e Filippo Rimi ma i due boss lo precedettero e lo eliminarono il 30 gennaio 1962. Inizialmente Serafina tentò di resistere al dolore, chiudendosi così in casa a pregare ogni giorno di fronte al piccolo altare che aveva preparato in ricordo del compagno e del figlio. Ma la rabbia e il desiderio di farla pagare agli aguzzini del figlio continuavano a divorarla dentro, finché prese una decisione che mai nessuna donna di mafia aveva ritenuto possibile: quella di ottenere vendetta rivolgendosi alla giustizia.

Avendo rinunciato all'omertà cominciò ad essere trattata alla stessa stregua di un' appestata: nessuno le dava retta né le rivolgeva la parola, perfino la sua famiglia d'origine le voltò le spalle. Ma Serafina non si lasciò scoraggiare e raccontò ai giudici tutti i fatti di "Cosa Nostra". Attirò l'attenzione di diversi giornalisti, come Mario Francese de "Il Giornale di Sicilia", e il giornalista de “L'Ora”, Mauro de Mauro, il quale ispirava fiducia e sicurezza alla Battaglia, riuscendo così ad ottenere le sue confessioni. De Mauro fu l’unico ad avere accesso alla casa della Battaglia e grazie al suo lavoro il caso della vedova si diffuse a livello nazionale.

Mauro De Mauro

Ed è proprio a Mauro De Mauro che la Battaglia racconta:

«Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo e di Baucina. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito poi mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo». (L’Ora, 21 gennaio 1964).

Le testimonianze pubbliche dell'ex donna di mafia permisero di condurre delle indagini contro i sospettati dell’omicidio Leale, che furono portati a processo nel febbraio del 1964. Serafina collaborò con il giudice istruttore Cesare Terranova e dichiarò che suo marito era stato assassinato a seguito di una faida di Godrano tra i Corrado, per il quale erano imputati Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia. In totale fece i nomi di otto uomini di mafia coinvolti nell’omicidio del marito e del figlo: Filippo Rimi, Rocco Semilia, Marco Semilia, Francesco Miceli, Salvatore Maggio, Costantino Damiano, Antonio Rustici e Vincenzo Corrado.

Nonostante continuasse a non trovare avvocati disposti a difenderla, la vedova continuò la sua guerra alla mafia per ben vent'anni, testimoniando in diversi processi di mafia a Perugia, a Catanzaro, a Bari, a Lecce. I giornali la descrivevano come una donna coraggiosa, che in aula tira fuori il fazzoletto imbrattato del sangue del figlio e, non risparmiando sputi agli imputati, si inginocchia davanti ai giudici per chiedere che sia fatta giustizia. La sua forza era inarrestabile e la sua determinazione feroce, perché a motivare la donna, come da lei stessa dichiarato, era il dolore per il figlio che la mafia le aveva tolto. Fu questo il carburante che spronò molte altre donne dopo di lei a combattere la mafia. Donne d'acciaio come ad esempio Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato.

Serafina Battaglia fu soprannominata dalla stampa "la vedova con la P38". Dopo il processo, infatti, disse di portare sempre con sé la pistola:

«La tengo per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia».

Grazie a Serafina, si fece luce sui diversi crimini e omicidi consumati tra il 1958 e il 1962, legati alla prima guerra di mafia.

Tuttavia, dopo diversi passaggi giuridici, nel 1971 in Cassazione la condanna fu annullata perché, prima di essere ucciso, il procuratore Pietro Scaglione depositò un dossier con cui dimostrava che Serafina mentiva ed aveva regalato un appartamento ad uno degli imputati. Un nuovo processo portò il 13 febbraio 1979 all'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Coloro i quali sostennero la vedova divennero vittime della crudeltà della mafia. Il giornalista Mario Francese fu assassinato dalla mafia nel gennaio del 1979, il giudice Cesare Terranova, nel settembre dello stesso anno. Il giornalista Mauro De Mauro fu invece rapito da "Cosa Nostra" nel settembre del 1970, e il suo corpo non fu mai più ritrovato.

Dopo l’assoluzione dei presunti assassini, Serafina non uscì più di casa. Chiusa nel suo dolore di madre ferita a morte, venne accusata di essere “pazza” dai parenti e abbandonata.

Morì il 10 Settembre del 2004, a 84 anni, quasi del tutto dimenticata, in un appartamento a pochi passi dal Tribunale di Palermo. Le nuove generazioni non hanno memoria di lei ma dovrebbero invece conoscere la sua storia, perché se da un punto di vista processuale le dichiarazioni di Serafina furono vane, da un punto di vista sociale e culturale la sua lotta fu una vera rivoluzione. Grazie a lei venne dimostrato che le donne dei mafiosi hanno il potere esclusivo di sconvolgere i codici culturali mafiosi attraverso una nuova arma, prima di allora mai considerato, e accessibile a chiunque: la testimonianza pubblica.

 

Francesca Sanfilippo

top